Articoli su Giovanni Papini

2016


Stefano Bigliardi *.

rec. Rileggendo "Il crepuscolo dei filosofi" di Giovanni Papini

Pubblicato in: ArteScienza, anno III, num. 5, pp. 71-90.
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Data: giugno 2016



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1 - Il libro di esordio di Papini

   Giovanni Papini (1881-1956) pubblicò Il crepuscolo dei filosofi nel 1906 1. Il libro, sorprendentemente negletto negli studi letterari (per tacere di quelli filosofici), si apre con una prefazione dell’autore, si


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articola in sei capitoli e una conclusione, ed è chiuso, nell’edizione Vallecchi del 1976, dalle prefazioni, sempre di Papini, alla seconda e terza edizione, rispettivamente del 1914 e 1919. Ciascun capitolo è dedicato a un filosofo di spicco: Immanuel Kant (1724-1804), Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), Arthur Schopenhauer (1788- 1860), Auguste Comte (1798-1857), Herbert Spencer (1820-1903) e Friedrich Nietzsche (1844-1900).
   Come presentava Papini il Crepuscolo? Nella prefazione più antica è descritto come «un libro ineguale, parziale, senza scrupoli, contraddittorio, insolente» 2; secondo Papini non ha valore informativo, ma è «un’opera di vita» 3, uno spaccato del proprio sviluppo intellettuale in un dato momento. In generale lo definisce una «liquidazione» 4 della filosofia, «un massacro, un macello, una strage, un pubblico mattatoio» 5.
   La struttura dell’opera è semplice a richiamarsi: ciascun filosofo è trattato, o forse sarebbe meglio dire affrontato, in medias res. Non ne viene fornita una contestualizzazione storica dettagliata, né un elenco di opere, né si legge nelle pagine di Papini una trattazione schematica e neutrale delle sue idee. Papini va subito al nocciolo, punge immediatamente nel vivo. Trattazione delle idee e giudizio (bruciante) sulle stesse sono costantemente fusi. Papini procede secondo uno schema pressoché fisso. Dapprima spiega le caratteristiche fondamentali del sistema di un pensatore attraverso i suoi tratti caratteriali, la cui discussione non è disgiunta da considerazioni di carattere culturale, sociale e politico. Questo si basa su una premessa metodologica che Papini enuncia aprendo la discussione di Kant: «la filosofia non è qualcosa di indipendente dall’uomo tutto intero, ma è precisamente l’espressione razionale di ciò che l’uomo ha di più profondo» 6. Dopodiché Papini enuncia varie obiezioni decisive per confutare le idee portanti del sistema stesso. Attenzione però:


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nonostante questo schema e i dichiarati (anzi insistiti) intenti distruttivi, non significa che Papini getti via ciascuno di tali sistemi in blocco o veramente disprezzi i pensatori in questione. Spiegazione attraverso il carattere significa anche comprensione, e tra le righe di confutazione si nascondono anche degli apprezzamenti.
   La conclusione, che Papini ritenne di dover espungere dalla seconda edizione e che però ripristinò nella terza, contiene una interessante discussione di arte, scienza, religione e filosofia, che esamineremo in dettaglio in una sezione successiva.
   Richiamo per sommi capi le critiche mosse da Papini a ciascun filosofo; la mia ricostruzione ovviamente non può sostituire il confronto diretto con il testo originale, al quale chi mi legge è caldamente invitato.
   Di Kant si sottolinea la natura di «borghese onesto e ordinato», l’esistenza «meschina, ristretta» le limitazioni di un uomo che «parla di tutto [e] ha lacune straordinarie»: per esempio discetta di estetica e non ha mai visto grandi opere d’arte né ascoltato più di una banda militare, impartisce lezioni di geografia e non è mai uscito dalla città natale 7. In questo senso è quasi necessario che Kant arrivi a costruire, secondo Papini, un sistema filosofico ordinato e architettonico, che per un attimo distrugge tutte le idee ricevute e subito dopo le ripristina: «Come per onestà intellettuale egli rovescia


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le prove teologiche dell’esistenza d’Iddio e della libertà, così per onestà sociale egli ristabilisce la credenza nell’una e nell’altra» 8. Poi Papini si incentra su due questioni filosofiche fondamentali del sistema kantiano. Quanto all’imperativo morale identificato da Kant, obietta che o l’altruismo, su cui tale imperativo appunto si incentra, è spontaneo (e allora enunciare l’imperativo è superfluo), o non lo è (e allora l’imperativo non viene seguito ed è inutile) 9. Quanto alla distinzione tra forme a priori (che determinano la conoscenza e ne assicurano l’universalità) e il contenuto, ossia la maggiore scoperta o invenzione filosofica che si deve a Kant, Papini si chiede che senso abbia: «come si possono ottenere gli elementi primitivi [...] quando non abbiamo né possiamo avere che composti inscindibili?» 10.
   Anche di Hegel Papini sottolinea la natura borghese, meschina, opportunista. Lo paragona al mago Merlino:

...parlando male, scrivendo peggio, non facendosi capire e dicendo di non essere capito, egli è riuscito a compiere lo strano portento di essere il re del pensiero del suo tempo e del suo paese fino a serbarsi ora dei fedeli 11.

   Hegel era, secondo Papini, un «impiegato» che si sentiva atPubblicato in:l romanticismo ma al tempo stesso ne aveva orrore, e che credette di liberarsene costuendo in realtà il sistema più magico e più romantico di tutti: «una fuga fatta colle cavalcature del nemico» 12. I suoi libri sono delle «grandi avventure metafisiche» e la sua filosofia, che aspira a contenere e sistematizzare il tutto, è fondamentalmente medioevale: «logica come la scolastica, unitaria come il cattolicismo, assolutista come il feudalismo» 13. Ma è tutta una magia, una illusione, appunto, tenuta insieme a forza di parole: «in certi momenti i suoi libri sembrano dei documenti di follia del linguaggio: degli aggrovigliamenti


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e accavallamenti di parole oscure e sonanti che stanno insieme perché il filosofo ce l’ha costrette» 14. A peggiorare le cose si aggiunge che Hegel non aveva un filo di ironia: «ha eseguito i suoi incantamenti colla gravità di un grande di Spagna e colla pesantezza dogmatica di un professore di metafisica» 15.
   Schopenhauer è descritto come un uomo precocemente invecchiato, la sua filosofia come l’espressione intellettuale di «un vecchio tranquillo e prudente, scettico e pratico» 16. Gli viene riconosciuto il merito di avere capito l’inutilità di vecchi sistemi di pensiero basati su princìpi fisici o su parole, per concentrarsi su un principio psichico e interiore 17, e questo è un esempio di quegli “apprezzamenti nascosti” di Papini che menzionavo sopra. Tuttavia il concetto di volontà elaborato da Schopenhauer, quella forza che domina il reale, e che riveste un ruolo centrale nel sistema schopenhaueriano, secondo Papini deriva da una affrettata e poco giustificabile generalizzazione e sostanzializzazione dei singoli atti di volontà che percepiamo in noi stessi 18. Inoltre, data la sua presunta natura cieca e sovraindividuale, non è affatto chiaro quale sia il rapporto della volontà con l’intelligenza: come è scaturita, quest’ultima (concettuale e discorsiva) dalla prima, e come si rapportano 19?
   Di Comte Papini scrive che «[c]’era in lui un fondo mistico che non morì mai, e anzi pervase, verso la metà della sua vita, tutta l’anima


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sua di sentimentale autoritario. C’era in lui [...] del profeta [...] e dell’asceta organizzatore di ordini religiosi» 20. Era «[u]n messia che ha studiato matematiche» 21. Tra gli errori fatali del filosofo francese Papini annovera il fatto che si illudesse che lo stato delle scienze sue contemporanee fosse quello definitivo, che «tranne certe piccole aggiunte o mutazioni, tutto sarebbe restato lo stesso» 22. Comte finì però, sottolinea Papini, con l’idolatrare quelle leggi scientifiche che in teoria dovevano solo essere delle descrizioni abbreviate dei fenomeni ed elaborò una filosofia «invasa da idee finalistiche e dall’idea dell’ordine del mondo» 23. Per di più l’umanitarismo comtiano, secondo Papini, proprio perché così scientifico, rigoroso, imposto, finisce con l’essere del tutto disumano 24.
   Quanto a Spencer, secondo Papini si trattò di un ingegnere che si mise a fare filosofia, e che pertanto costruì una filosofia pervasa di spirito pratico, meccanicistico e ingegneristico: «[q]uando due cose o due teorie si levavano di fronte o sembravano irriducibili [...] si sedeva come arbitro e cercava premurosamente un filo, una passerella, un ponte, una parola, una formula per riunire gli opposti» e anche se l’espediente escogitato non funzionava «Spencer non si accorgeva di nulla e continuava nella sua opera di accordatore con tutta l’eroica tranquillità degli sciocchi» 25. Questo metodo appare a Papini di una «dabbenaggine insulsa» scioccamente cieco alle contraddizioni che caratterizzano la vita 26 e rimprovera a Spencer di non avere mai


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avvertito «quel senso di una presenza superiore, invisibile ma certa» 27.
   Nietzsche, infine, è descritto da Papini come un uomo infermo e debole che fondamentalmente scrisse l’elogio di quelle caratteristiche, quali la forza, la salute, la violenza, la gioia, che non possedeva 28. Con la volubilità e incapacità di scegliere di Nietzsche Papini spiega la sua propensione per la forma frammentaria e aforistica 29. I libri di Nietzsche, secondo Papini, hanno «l’aria di mercati orientali ingombri di cenci vecchi e di drappi preziosi ammucchiati e mescolati senza ordine» 30. Quanto al contenuto della sua filosofia, Nietzsche è descritto quasi come un Bastian contrario, il quale costantemente cercava di «ridurre l’alto al basso» 31. Eppure, obietta Papini, «[a]nche ammesse le origini prettamente animali di certe attività elevate dell’uomo non è dimostrato ch’esse non abbiano acquistato una vita e una ragione per conto loro e si siano rese indipendenti, col tempo, dalle loro progenitrici» 32. Papini dissente anche totalmente dalla interpretazione nietzscheana del Cristianesimo che, o non fu capito né seguito, e allora non può essere incolpato di effetti che non poté produrre, o fu «una delle forze efficaci del mondo» e allora Nietzsche non spiega come ha dato origine a quella «aristocrazia violenta e aggressiva» che è il clero, e come mai i popoli cristiani sono così vitali 33.


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2 - Filosofia, Arte, Religione, Scienza

   Qual era, a detta di Papini, il fine del pensiero filosofico, da che cosa scaturiva, quali i suoi limiti, e quali i campi affini? Per capirlo dobbiamo concentrarci sulla conclusione, nella quale peraltro l’autore fiorentino precisa che il libro è il risultato della sua riflessione tra il 1903 e il 1905, e che alcune sue idee, nel momento stesso in cui si pubblica il Crepuscolo, sono già cambiate 34. Ma un punto è fermo: «la necessità di rifare il mondo invece di limitarsi a contemplarlo» 35.
   L’enfasi è tutta posta da Papini su «l’azione», «il cambiamento» «la ricerca del potere», che a suo dire caratterizzano la vita, e che sono i motori dell’agire umano in senso lato, in tutte le forme in cui si esprime 36.
   La filosofia non è l’unica forma dell’espressione e del pensiero umano che, assecondando l’essenza della vita, anela ad apportare un cambiamento nel mondo. Tale cambiamento si può ricercare anche con l’Arte, che Papini scrive con la maiuscola e che, a suo vedere

... è certo uno strumento potente di modificazione del mondo e di noi stessi ma viepiù essa diviene efficace e più riesce inutile. Infatti le opere d’arte sono saggi di rifacimento e d’interpretazione del mondo che servono ad allargare la immaginazione e la comprensione di coloro che non sono artisti, e, in certi casi, giungono a modificare non solo la nostra visione del mondo ma il mondo stesso, ma quando esse abbian dato a un maggior numero di uomini l’abitudine di contemplare esteticamente il mondo senza bisogno, cioè, d’intermediari di quadri, di statue o di poesie e quando, d’altra parte, abbiano resa più simile a loro la natura, si comprende bene che le ragioni del loro successo vengono a mancare. 37.


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   Del pari tese alla modificazione del mondo sono, secondo Papini, la Religione, se la fede ispira a una «grande vita», anche se le forme religiose stesse sono transeunti 38.

... è un arricchimento di immaginazione assai minore che non l’arte e la religione ma rappresenta, in compenso, una maggiore possibilità di modificazione delle cose. Anche la scienza, però, non è uno strumento del tutto soddisfacente. Essa ha bisogno di prendere sempre più coscienza della sua funzione pratica e di riformare i suoi metodi eliminando tutte le questioni inutili (Pragmatismo). Inoltre essa ha lo svantaggio di non riuscire ad allargare il campo delle cose modificabili e di compiere lentamente e faticosamente i cambiamenti per mezzo d’ingombranti e complicati intermediari materiali. Essa deve dunque:
   1) cercare altre forze da sfruttare e da dominare per potere aumentare il campo di modificabilità;
  2) utilizzare  maggiormente una forza che ciascuno  ha in noi, l’anima, la quale può compiere cambiamenti impossibili con altri mezzi e compiere cambiamenti abituali con maggiore rapidità e senza intermediari materiali (fenomeni medianici)
39.

   Paragonata a queste forme di sapere la filosofia, secondo Papini, del pari è, se si considera la sua origine, un’espressione vitale, finalizzata ad aumentare il potere dell’uomo, e anelante al cambiamento, ma perde ogni applicazione poiché diventa generalizzazione concettuale esasperata e quindi sterile:

   ... è una reazione vitale che assume forme razionali. Ma questo non pregiudicherebbe il suo valore pratico, se ne avesse. Anche la filosofia è mossa dallo stesso fine degli altri strumenti, cioè quello di aumentare il potere dell’uomo. Ma la filosofia, intesa non come riunione di scienze particolari quali la psicologia, la logica e la morale, ma come tentativo di una sistemazione universale del mondo, non è riuscita al suo scopo. Essa rappresenta, in un certo modo, lo stadio assurdo della scienza. Essa proviene dalla scienza per forza d’inerzia, per progressivo allargamento di concetti. Il filosofo ha visto come lo scienziato, formulando delle leggi ottenute con generalizzazioni più o meno estese e immaginando per ciò un mondo irreale, giungesse


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a risultati pratici. E ha creduto perciò che continuando collo stesso metodo e portandolo al suo massimo esso avrebbe continuato a dare dei risultati. Ma il filosofo s’è ingannato: passando dal generale all’universale il concetto ha perduto qualsiasi significato e perciò qualsiasi portata pratica; creando un altro mondo più fittizio ancora ha creduto che esso potesse servire a qualcosa ma questo mondo dell’eterno, dell’unico, dell’immortale, si è visto ch’era tanto perfetto che coincideva coll’inesistente 40.

   Alla luce di queste osservazioni, secondo Papini, la filosofia può o conservarsi come «genere letterario», o evolversi in teoria dell’azione, pragmatica: «dirà cos’è l’azione e quali sono i modi nei quali avviene l’azione e quali sono le varie categorie di azioni e insegnerà come adeguare i mezzi ai fini e studierà la compatibilità o incompatibilità dei fini» 41.
   Papini conclude auspicando l’avvento di un «Uomo Dio» la cui «volontà si trasformerà immediatamente in atto» e termina: «Io vado, per altri cammini, alla conquista della mia divinità» 42.

3 - Ricezione del Crepuscolo

   Come fu accolto il Crepuscolo? Sappiamo che Papini, venticinquenne e autodidatta, desiderava un «successo d’irritazione» 43. Di fatto si fece apprezzare fuori d’Italia, ed era un’epoca in cui la circolazione internazionale di un lavoro intellettuale non era certo agevole e da darsi per scontata. William James (1842-1910), in una lettera del 27 aprile 1906 si rivolse al giovane come «amico e maestro» esprimendo entusiastici giudizi sul suo ingegno e sulle sue idee 44;


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in un articolo coevo, pur riconoscendo che nel libro non tutti i temi sono stati approfonditi, James definisce i capitoli critici del Crepuscolo «vigorosamente pensati e pungentemente scritti» 45. Benedetto Croce (1866-1952) commentò:

   [l’autore] anche in questo volume dà prova dell’acume e dell’agilità del suo ingegno nonché delle sue doti di scrittore limpido, brioso e spesso ironicamente fantasioso 46.

   Nell’Invito alla lettura che apre l’edizione Vallecchi del 1976 Luigi Baldacci contestualizza il libro entro il pragmatismo e evidenzia come anticipi il futurismo; si sofferma sulle contraddizioni di Papini, uomo «di lente e conseguenti modificazioni» 47; quanto alle argomentazioni del libro scrive:

   [i] nutile dire che molti di questi smontaggi, di questi supplizi sulla pubblica piazza sono assolutamente effimeri. Papini non uccide quei filosofi in persona, ma dei fantocci»

   Così il Crepuscolo sarebbe pieno di «scher- zi sofistici» che ne fanno «prevalentemente un’opera letteraria» 48. Antonino Di Giovanni sottolinea che il libro «segnerà profondamente le sue modalità espressive, l’intera sua produ- zione, la sua fortuna; è infatti proprio con il Crepuscolo che Papini si conquista la fama di demolitore, a volte sommario e dilettantesco, che la critica ha sempre, e spesso ingiustamente, ricordato» 49. Tuttavia, come ho richiamato all’inizio del saggio, il Crepuscolo è pressoché


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ignorato nella letteratura critica e non è apprezzato filosoficamente.

4 - Papini cattivo maestro?

   Ovviamente la formazione di un giudizio favorevole su Papini (o forse la sua ricezione tout court) non è, o non è stata, aiutata dalle ombre che si allungano sulla biografia ma anche sui testi del nostro autore. Papini, è vero, non ebbe una evoluzione intellettuale e civile limpida. Nel corso della vita ebbe svolte radicali e contraddittorie, e, soprattutto, aderì a ideali bellici e fascisti.
   Se vogliamo giocare a identificare nel suo libro d’esordio i semi di future sue conversioni, adesioni ed esplosioni, non incontriamo grandi difficoltà: non sfuggono nel libro tratti essenzialmente futuristi (incluso il piglio da “manifesto” dell’ultimo capitolo), come pure, specie nella trattazione di Nietzsche e nella conclusione, un potente anelito verso il cristianesimo. Nel Crepuscolo si riscontrano insomma, in embrione, le caratteristiche, le incoerenze e i difetti dell’autore. Tuttavia, il Crepuscolo preso a sé, se ci si concentra sullo spirito che lo pervade, è fondamentalmente un libro dissacrante e, soprattutto, antiautoritario: basti pensare a come respinge l’assolutismo di Hegel. Papini forse pecca di ipertrofia della pars destruens (come ci si può aspettare da un giovanissimo e in generale da un filosofo inquieto e scontento) ma a me pare qui soprattutto un uomo libero. Viene da chiedersi quale sarebbe stato il risultato di tanta indipendenza e insofferenza se applicata, per esempio, al Manifesto della Razza (1938), che invece, ricordiamo, Papini sottoscrisse, anche se in contraddizione con affermazioni contenute in altri suoi testi.
   Papini sembra peraltro cadere in un errore simile a quelli che evidenzia negli autori che critica, in una contraddizione sottile ma potente e pervasiva. A ben vedere infatti licenzia non “la” filosofia,


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ma “delle” filosofie, lo fa con argomentazioni filosofiche, e sostituendovi appunto una filosofia, il pragmatismo, a cui è dedicato il capitolo finale. Inoltre, nell’elogio dell’Uomo-Dio Papini suona simile a uno dei suoi “liquidati”: Nietzsche. Eppure questa sezione conclusiva, che a una prima lettura sembrerebbe piuttosto un “manifesto” prevalentemente intessuto di retorica, e la più contraddittoria, contiene anche quell’interessante discussione di arte, scienza, religione e filosofia, su cui torneremo nella prossima sezione.
   Si può temere che l’opera di Papini presa come un tutto sia veicolo di idee fasciste? A me pare che il rischio del Crepuscolo preso a sé sia minimo, anzi che lo stesso libretto ne contenga l’antidoto, anche se un antidoto di matrice anarchica e individualista e non una visione costruttiva e alternativa. Che anche l’anarchismo possa esser visto come un messaggio poco raccomandabile, che degli spiriti anarchici abbiano trovato una loro casa in movimenti fascisti, che la violenza espressa da Papini possa essere messa al servizio anche di ideali non democratici sono problemi che è lecito e sensato porre e che qui non sviscero; ma anarchismo non è fascismo, e, per lapalissiano che possa suonare, il 1906 non è né il 1915 né il 1922.

5 - Virtù filosofiche del Crepuscolo

   Sul piano filosofico non convince la valutazione critica di Baldacci: un conto è affermare, come James, che nel Crepuscolo non tutto quello che si poteva dire è stato detto (e su questo Papini stesso è onesto nella sua prima prefazione); altro è sostenere, quanto ai filosofi trattati, per come sono discussi, che si tratta di «fantocci». È vero che lo stesso Papini, rileggendosi nel 1914 e scrivendo una


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nuova prefazione parla di «bambolotti» 50 ma a me pare piuttosto un suo eccesso di modestia dettato anche dal distacco di anni, per di più vissuto da un ingegno che cresceva e cambiava costantemente. I filosofi che Papini critica non sono fantocci perché ne parla sulla base di una conoscenza vasta e profonda. Gli attacchi che porta ai pensatori sono brevi perché sono come il culmine di un iceberg di ricerca e riflessione. È lui stesso che ci riferisce, lo abbiamo visto, come nel Crepuscolo confluissero tre anni di lavoro. Se anche volessimo sostenere che tale ricerca e riflessione furono relativamente rapide, la velocità si spiegherebbe comunque con la capacità di una mente acutissima. Le idee menzionate e confutate non sono certo tutte, ma sono quelle portanti dei filosofi discussi. La semplicità della discussione e dell’espressione scaturisce da lunga dimestichezza e assorbimento profondo, non deve essere confusa con l’ipersemplificazione che risulta dalla fretta e che caratterizza il dilettantismo. D’altro canto chi, pur avendo una certa pratica con la scrittura letteraria e più anni alle spalle di quelli di Papini all’epoca del Crepuscolo, sente che sarebbe in grado di scrivere un testo simile, ossia che trattasse criticamente e accessibilmente sei giganti del pensiero, di getto, senza basarsi su vastissime letture e profonde riflessioni 51? Papini sa di che cosa parla perché lo ha letto e assimilato in profondità. E in quei tre anni, si direbbe, ha letto in profondità tanto i testi originali quanto la letteratura secondaria. Certo, a volte si riferisce senza contestualizzarlo a questo o a quel critico, o ci tiene a riportare termini e frasi in lingua originale, fino a una poesia di Nietzsche citata senza traduzione 52. Il libro parla di filosofia a chi di filosofia già ne sa. Ma lo fa come un’utile opera di approfondimento critico. In altre parole, i vezzi del giovane erudito e una certa ellitticità non compromettono la comprensibilità del Crepuscolo.
   Lo stile disinvolto, la polemica, e certe scelte lessicali potevano scandalizzare o disgustare il lettore contemporaneo di Papini, specie


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quello accademico. Si capisce allora la presentazione del libro come «strage» «macello», e via enfatizzando. Ma il mutamento dei costumi ha reso il libro di Papini, tutto sommato, un testo leggero. Oggi meglio di allora possiamo vedere che è un testo molto più di idee e argomentazioni che di attacchi e motti pungenti. È vero, Papini esordisce con notazioni sui filosofi che sembrerebbero ad personam. Ma abbiamo visto che il procedimento si fonda su un preciso presupposto metodologico, che si può anche rifiutare ma ha una sua dignità e solidità. Altre volte la critica di Papini si condensa in una espressione dal valore impressionistico e letterario. Ma questo non toglie che nel Crepuscolo ci siano idee e obiezioni sensatissime, che portano non tanto a buttar via un autore tutto intero, ma almeno a non infatuarsene ciecamente.
   La discussione critica, competente, originale e accessibile, di idee filosofiche, rivolta a chi alla filosofia si sia già accostato attraverso scuola, università, o altri studi, senza essere diventato uno specialista ma desiderando, al tempo stesso, saperne di più, è un sottogenere raramente praticato, specie in italiano. Manca insomma una via media, un compromesso o raccordo tra il manuale scolastico nudo e crudo, il testo originale del filosofo, spesso impervio, e la trattazione tecnica da articolo accademico. Si incontrano più che altro operette scanzonate in cui, a forza di aggiungere spiritosaggini e di alleggerire idee, di filosofico rimane ben poco. Ora, il Crepuscolo non è un testo per neofiti ma è dotato di un equilibrio ammirevole, copre un numero di temi notevole, e si presta appunto a stimolare, in modo non tecnico, una riflessione ulteriore in chi già conosca i filosofi in questione.
   Papini ha idee sue e, non ignoriamolo, ha un suo limpidissimo stile. Dote rara, specialmente se pensiamo che a possederla è un giovanissimo autodidatta. Al giorno d’oggi, i filosofi giovani spesso, nei loro compitini, cercano di imitare lo stile (fumoso) di qualche autore senior: «Visto? Anche io appartengo alla tribù»; così non fu nel libro di esordio di Papini. Chi legge il Crepuscolo avrà voglia di saperne di più su un autore o un evento che Papini solo accenna ma non si sentirà costretto a rileggere più e più volte una frase per spremerne il senso. Anzi, la rileggerà ammirato dalla chiarezza e dall’arguzia


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del giudizio espresso 53.
   Come già ho accennato, degna di nota, ancorché abbozzata in poche pagine e contenuta in una sezione di cui a un certo punto Papini ritenne di poter fare a meno, è la tassonomia che l’autore fiorentino traccia di arte, scienza, filosofia e religione, e che del pari può essere annoverata tra le virtù filosofiche del Crepuscolo. Come abbiamo osservato, tali forme del pensiero e dell’espressione umana sono tutte classificate e discusse in base alla loro capacità di cambiare la realtà, capacità che a propria volta è vista come espressione della ricerca di potere intesa come tratto primordiale della vita. Anche questa definizione, di sapore nietzscheano, è a mio avviso da annoverarsi tra le “punte di iceberg”, tra le felici intuizioni di cui il Crepuscolo è ricco e che presuppongono e denotano un profondo processo di elaborazione critica da parte dell’autore. Impressiona particolarmente sia la capacità di Papini di offrire una classificazione di arte, scienza, religione e filosofia alla luce del medesimo concetto, che quindi ne coglie e presenta l’unità e la continuità, sia che ciascuna di esse venga da lui considerata come forma tutto sommato insoddisfacente, incompleta, transeunte.
   Proprio la descrizione di tali caratteristiche della filosofia (e dell’arte) fornita dal giovane Papini ci consente di comprendere meglio le inquiete e incorenti svolte dell’autore stesso. Incoerenti se osservate dall’esterno; ma coerenti se osservate alla luce di questa teoria contenuta nel suo primo libro, che ancora una volta si rivela fondamentale. Perché se la vita è essenzialmente ricerca di potere espresso attraverso il cambiamento, inevitabilmente, chi la vita la voglia assecondare ed esprimere appieno (come senza dubbio fu il caso di Papini), non potrà che sforzarsi di praticare varie forme del sapere, sperimentare con varie idee, e abbandonare in successione ogni risultato acquisito, per volgersi ad altro. Il cambiamento è tale solo in relazione a quanto lo ha preceduto; ogni risultato, se ci si arresta, si sclerotizza e nega il cambiamento medesimo, e quindi nega il potere e la vita. Il risultato è una perpetua trasmutazione, una corsa


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in avanti, una ricerca di nuove forme che contraddicono le precedenti e che presto saranno contraddette da altre ancora.
   Alla luce di questa riflessione si comprende anche, e ancora una volta, perché le confutazioni dei filosofi di cui è costituito il Crepuscolo non sono affatto superficiali giochi di fantocci: il punto è che tutti quei pensatori fallirono, incorsero in errori, ma non per difetto individuale su cui Papini si appunta con gusto della critica fine a se stessa: fallirono perché avevano scelto di dedicarsi a una forma del pensiero, in fin dei conti, insoddisfacente e inadeguata in quanto tale. Proprio questo carattere erroneo e inadeguato, ma anche la dialettica tra risultato acquisito e movimento spiega l’errore filosofico stesso di Papini che richiamavo poc’anzi, consistente nell’opporre a quelle filosofie una filosofia (e sospetto si accorgesse lui stesso dell’errore, come la scelta di espungere il capitolo finale sembrerebbe suggerire).
   Papini esordì con questo libro tra il filosofico e il letterario, ma fu fondamentalmente scrittore, e quindi essenzialmente artista. Alla sua esperienza esistenziale, con la conversione (1921), si aggiunse l’aspetto religioso (anch’esso peraltro espresso in un’opera letteraria, ossia la coeva Storia di Cristo). Mancò a Papini allora solo la pratica e la consuetudine della scienza, intesa come scienza naturale e precisa (di cui peraltro non dovette mancargli un’intuizione abbastanza corretta quanto alla metodologia) 54.

6 - Conclusioni

È auspicabile che il Crepuscolo venga rivalutato, sia come opera chiave per comprendere Papini, sia come lettura filosofica in sé e


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per sé. Come studioso e insegnante di filosofia, e specialmente come insegnante interessato a trasmettere agli allievi non tanto dei “santini”, bensì il senso critico, e, quanto alla scrittura, uno stile chiaro, ho chiuso il libro, ogni volta che l’ho letto, rammaricandomi che non contenesse più capitoli 55. Si sente che le distruzioni di Papini non sono solo divertenti, ma anche esemplari e salutari. Leggere il Crepuscolo ha l’utilità di confermare in uno studente o in un genuino cultore della filosofia dubbi sorti legittimamente; è un sano controcanto utile ad evitare infatuazioni filosofiche che inevitabilmente conducono a quella limitatezza di vedute che la filosofia stessa dovrebbe evitare. Il Crepuscolo è, quanto a stile e metodo, la dimostrazione che si può essere brevi ed essenziali senza essere superficiali. Che le obiezioni papiniane non si dipanino per pagine intere o che non tutti i punti siano coperti non è un difetto ma uno stimolo al lettore a svilupparli e metterli alla prova. A tutto questo si aggiungono l’importanza delle intuizioni su arte, scienza, religione e filosofia, rilevantissime sia come specifica discussione a sé, sia, e spero di averlo mostrato a sufficienza, come strumento interpretativo dell’esistenza e della produzione papiniane.
   Per il titolo di queste pagine ho scelto la frase “rileggendo il Crepuscolo di Giovanni Papini”, ma al posto del gerundio si sarebbe potuto usare un imperativo: rileggete. Aveva ragione Papini quando scriveva la prefazione del 1919 sostenendo che nel libro vi fosse materiale per «parecchi sistemi». Il libro è poco valorizzato: l’autore è relativamente poco frequentato, sempre con una certa diffidenza, e soprattutto da letterati, non da filosofi. Eppure vale ancora la pena leggerlo e diventare quello «sconosciuto giovine amico che troverà in [quelle] affrettate pagine delle gioie e dei sentieri». 56.



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Ringraziamenti

Sono grato alla professoressa Mariapia Lamberti (UNAM) che per prima si è interessata a questo saggio. Queste pagine sono dedicate a Maria Ruf-Fritz per il suo grande amore per la lingua e la letteratura italiana.


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